Trascrizione del Podcast
Eccoci qua, ben trovati! Noi siamo pronti per una nuova puntata del nostro podcast in cui cerco, come sapete, di rispondere alle vostre curiosità storiche.
Le lingue dialettali
Puntata linguistica – sono arrivate diverse domande sulle lingue, le loro origini e altre curiosità. Questa la manda un mio omonimo, Davide, è una domanda complessa e articolata che provo a sintetizzare:
“Che ruolo hanno avuto le lingue dialettali nei regni italiani a partire dal Medioevo? Sono mai state lingue di corte? Quali dignità e riconoscimento avevano ad esempio siciliano, napoletano, il veneto o il genovese nelle corti europee? E quali conseguenze ha avuto il parlare una lingua diversa tra i diversi stati della penisola?”
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Questa è una di quelle domande su cui bisogna stare molto attenti a essere chiari nella risposta, perché noi in Italia abbiamo delle sensibilità acutissime su questa cosa. Noi possediamo un patrimonio straordinario di dialetti e siccome, come dire, dal punto di vista pedagogico per molto tempo in Italia si è insistito sul fatto che bisognava insegnare l’italiano e il dialetto poteva essere quasi presentato come una cosa negativa, oggi invece abbiamo come un senso di rivalsa nei confronti dei nostri dialetti che sono lingue straordinarie, straordinariamente espressive. E però noi per difenderli, appunto, tendiamo ogni tanto anche a volare con la fantasia e a immaginare che questi dialetti in passato abbiano avuto uno status anche proprio, appunto, di lingua ufficiale.
Quante volte mi sono sentito dire: “Ma è perché nella Repubblica di Venezia i documenti ufficiali erano scritti in veneto?” Non è così, in realtà, non è così.
La situazione reale
Qual è la situazione? Intanto che ovviamente la gente in Italia nel passato ha sempre parlato il suo dialetto e tutti parlavano dialetto, non c’era nessuna connotazione sociale: parlava dialetto il contadino e parlava dialetto il principe. Però non dobbiamo immaginare che nell’età del passato la gente non andasse in giro – la gente si è sempre mossa. Ovunque n Italia, in qualunque epoca, anche nel Medioevo, era normalissimo trovarti a parlare con qualcuno che arrivava dall’altro capo della penisola: mercanti, ecclesiastici, i frati che giravano a predicare… continuamente tu ti trovavi di fronte a persone che non capivano il tuo dialetto e ti dovevi arrangiare a farti capire.
Ora va detto che nel Medioevo i dialetti italiani probabilmente erano un po’ meno lontani l’uno dall’altro di quanto non siano adesso. Non a caso Dante parla di come si parla in Italia nel “De vulgari eloquentia” e quello che percepisce lui è che parliamo tutti la stessa lingua, però in ogni zona si parla a modo suo. Ci son zone dove gli piace poco il modo in cui parlano quelli lì – i veneti, appunto, che parlano in modo ispido; e io il sud, dice Dante; i romani che danno del tu a tutti e lui si offende moltissimo quando va a Roma e gli danno del tu. Però Dante percepisce i dialetti italiani come un insieme, un continuo.
Nei secoli si sono andati un po’ allontanando e allora è diventato sempre più necessario avere una lingua di comunicazione comune. E fin dal Trecento il toscano si è imposto. Si è imposto perché c’era Dante e poi Petrarca, Boccaccio, quindi in tutta Italia si leggevano questi grandissimi autori e quindi automaticamente si capiva il toscano. C’è anche il fatto che Firenze era una potenza economica bancaria straordinaria. Papa Bonifacio VIII avrebbe detto – non è vero ma l’aneddoto si racconta fin dall’epoca: “Il mondo è fatto di quattro elementi secondo i filosofi medievali: fuoco, aria, terra e acqua…” e Papa Bonifacio VIII avrebbe detto: “e poi c’è un quinto elemento, i fiorentini, perché te li trovi dappertutto”.
Quindi di fatto nelle corti italiane della fine del Medioevo e del Rinascimento si parlava una lingua che sostanzialmente era il toscano. L’unica differenza è che nelle corti del Nord c’era una, come dire, un’influenza dei dialetti locali ben visibile e quindi era un toscano con un’influenza lombarda, diciamo così. E credo che fino a tutto il Quattrocento se la sono giocata il toscano puro e duro e quello invece padano, diciamo così, e poi ha prevalso il toscano puro e duro. E in tutti gli scambi diplomatici, culturali o così via si parlava quella lingua lì, non il veneziano, il genovese o il siciliano, anche se oggi a noi, appunto, questo può un po’ dispiacere.
L’italiano come lingua internazionale
C’è una domanda di Susanna, sempre sull’italiano, che parte da un caso molto specifico. Leggo:
“Il fatto che gran parte dei libretti delle opere liriche sia in italiano fa facilmente dedurre che l’italiano sia stato la lingua della cultura in Europa per un periodo piuttosto lungo. Come mai allora non è riuscito a diventare una lingua internazionale come invece diventarono il francese prima e poi l’inglese?”
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Beh, ma in realtà potremmo anche dire che l’italiano nel Rinascimento era una lingua internazionale. Certo, non nel senso che fosse l’unica lingua parlata nella diplomazia europea – quello è successo soltanto più tardi – ma anche perché i tempi sono cambiati.
L’Italia è stata lingua internazionale nel Rinascimento e nell’età moderna, perché all’inizio la supremazia culturale dell’Italia era schiacciante. Pensate a quante opere di Shakespeare sono ambientate in Italia e tratte da novelle italiane! Cioè l’Italia era dappertutto, anche prima dell’invenzione dell’opera lirica. E comunque nel mondo musicale ha continuato a dominare fino al Sette-Ottocento l’Italia in ogni caso.
Quindi è stato un’egemonia innanzitutto culturale: l’italiano, se eri una persona colta, bene o male lo sapevi. E la politica in realtà lo usava. Per dire, quando la regina Elisabetta I alla fine del Cinquecento in Inghilterra riceveva un ambasciatore che veniva da uno degli stati italiani, gli parlava in italiano. Elisabetta sapeva parlare perfettamente l’italiano.
E ci sono zone d’Europa dove, in realtà l’italiano – è una cosa molto buffa – è stato anche lingua diplomatica internazionale fra, come dire, fra partner che se no non riuscivano a capirsi. E mi spiego: in Europa orientale ancora nel Settecento le grandi potenze erano da un lato l’Impero Ottomano e dall’altra l’Impero Russo. E c’è almeno un caso, forse anche altri, ma c’è un trattato che mette fine a una guerra fra i russi e i turchi nei Balcani – siamo nel 1774 – si chiama il Trattato di Küçük Kaynarca, credo un posto in Bulgaria.
Questo trattato fra i turchi e i russi, con i turchi che non sanno il russo e i russi che non sanno il turco… i turchi che lingua parlano delle nostre? L’italiano! E i turchi l’italiano lo sanno perché da sempre nel Mediterraneo sono a contatto con i veneziani, quindi i turchi l’italiano lo sanno benissimo. I russi hanno anche loro qualcuno che l’italiano lo sa, quindi il trattato fra l’imperatore di Russia e il sultano ottomano viene esteso in italiano e poi dalla versione italiana – non so se in Bulgaria – si fa la traduzione turca e la traduzione russa.
In quello stesso 1774 – adesso spero di non sbagliare l’anno ma – era ancora vivo, credo, Metastasio, il poeta di corte alla corte di Vienna è un italiano, Metastasio, che scrive poesie e libretti in italiano. E i libretti delle opere che hanno tanto successo, come quelle di Mozart, sono in italiano, finché Mozart, da vero nazionalista austriaco, non si stufa di fare opere su libretti italiani e dice: “No, adesso dimostriamo che anche in tedesco si può fare l’opera” e si fa fare in tedesco il libretto de Il flauto magico.
Quindi fino a quel momento in realtà il peso dell’italiano in certi ambiti era ancora considerevole. Chiaro che intanto fin dal Seicento, fin dal tempo del Re Sole in Francia, come dire, è nata una grande potenza militare, economica e politica. La Francia è la grande potenza europea dal Re Sole fino a Napoleone. Ed è anche nel Settecento il paese egemone dal punto di vista culturale perché comunque l’Illuminismo, che piace da matti in tutta Europa e che quindi arriva fino a Pietroburgo e fino a Berlino e fino a Palermo, però parte da Parigi. L’Illuminismo è una corrente filosofica che si esprime in francese, quindi c’è poco da fare: nel Settecento l’egemonia francese è tale in un’epoca in cui invece l’Italia è un paese ancora amato ma non più tanto rispettato, perché la povertà italiana ormai fa pena a tutti, la miseria degli italiani e la dissoluzione politica del paese, l’incapacità dei piccoli stati italiani di contare qualcosa.
E quindi l’Italia è effettivamente, nonostante la sua gloria culturale, non conta più niente a livello politico e quindi c’è poco da fare: l’italiano non sarà poi mai una lingua, appunto, egemone come invece è allora il francese. E’ consolante pensare che a quell’epoca l’inglese non sapeva nessuno, per l’appunto era una lingua altrettanto ignota dello svedese e gli inglesi se volevano fare qualcosa nel mondo dovevano saper parlare il francese.
L’Italia come paese eterogeneo
Mirko ha invece questa curiosità che leggo:
“Noi italiani, generalmente, ci consideriamo un popolo molto eterogeneo a livello di tradizioni, culturali, di dialetti. Ma rispetto ad altre nazioni europee come ad esempio la Germania o la Spagna è veramente così?”
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Beh, in realtà ogni paese ha delle sue peculiarità da questo punto di vista e ci sono paesi molto, molto omogenei come l’Inghilterra che è sempre stata molto omogenea. Ci sono paesi che in passato non lo erano tanto come la Francia e che invece dalla Rivoluzione francese in poi sono diventati incredibilmente omogenei, dove i dialetti sono praticamente spariti e dove anche lo stile di vita, la cucina, in realtà, poi è molto omogeneizzata.
La Spagna o la Germania invece hanno molte più eterogeneità, assomigliano di più a noi, con delle differenze però. L’Italia non ha soltanto le identità regionali, ha proprio un’infinità di identità locali per cui Modena è diversa da Reggio Emilia e Catania è diversa da Palermo. Questa cosa in Spagna io credo che ci sia un po’ meno: lì conta molto proprio l’identità regionale che è anche linguistica. La Catalogna o la Galizia, per non parlare dei Paesi Baschi, hanno anche proprio una lingua diversa.
Quella che assomiglia di più a noi alla fine è la Germania, che può sembrare strano perché noi in genere non ci sentiamo tanto fratelli della Germania. Però se pensate che l’Italia e la Germania sono i due paesi in Europa, fra i grandi paesi europei occidentali, che si sono unificati tardissimo e tutte e due nel giro di 10 anni – l’Italia nel 1861, la Germania nel ’71. Prima entrambi i paesi erano divisi in tanti stati e staterelli con tante piccole capitali, tante corti, tanti dialetti, tante lingue locali. In questo senso noi assomigliamo, credo, abbastanza alla Germania.
Salvo che, quando vai a mangiare in Germania, ti rendi conto che c’è ancora una differenza: in Germania si può mangiare benissimo ma non c’è niente di paragonabile, di nuovo, alla diversità delle nostre cucine regionali. Quindi da quel punto di vista lì è sicuramente l’Italia il paese più eterogeneo d’Europa.
Perché si usa l’appellativo “italiano”?
Abbiamo anche una domanda che ci arriva da Elisabetta, che è un’insegnante di storia e filosofia in un liceo e le sottopone il seguente quesito:
“Perché per nominare reali, signori e principi non italiani, in ogni manuale che ho avuto modo di leggere si usa l’appellativo in italiano anziché quello che utilizzavano i coevi? Non si potrebbe usare il latino per l’antichità e le lingue nazionali via via che gli stati nazionali si formano? Vorrei sapere se storiograficamente non sia ammissibile oppure si tratti di una semplice convenzione italiana.”
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Allora effettivamente, diciamo che può sembrare una cosa un po’ arcaica, il fatto di tradurre in italiano proprio specificamente i nomi dei regnanti e dei sovrani, perché oggi nessuno lo farebbe più in nessun altro caso per qualunque altro tipo di persona, mentre invece in passato era normale. In passato fino all’Ottocento era normale dire Guglielmo Shakespeare.
Certo, questo apparteneva anche a un mondo, a un momento in cui c’era meno comunicazione, era meno diffusa la conoscenza delle lingue. Però era anche, appunto, una convenzione: la gente del passato voleva parlare la propria lingua, aveva in genere un sovrano disprezzo per le altre, era abbastanza raro conoscerle bene, le altre lingue, e tradurre i nomi propri era comunissimo. Invece diciamo la nostra modernità questa cosa l’ha abolita del tutto e chiunque oggi dicesse Guglielmo Shakespeare o Giuseppe Biden evidentemente sarebbe ridicolo.
E invece con i sovrani lo facciamo. Però il punto è in realtà che l’alternativa non sarebbe così semplice. L’alternativa non sarebbe così semplice perché i sovrani del passato – tanto per cominciare, io penso al mio Medioevo (naturalmente gli esempi che mi vengono subito in mente, voi dovete scusarmi, sono naturalmente quelli del Medioevo) – le lingue del Medioevo suonavano in modo diverso da come suonano oggi.
Un re di Francia – prendiamo Luigi VII di Francia – vogliamo chiamarlo Luigi, è una cosa un po’ strana, usiamo il nome in francese. Luis, ma nel dodicesimo secolo non si diceva “Louis”, si diceva “Loïs”. Dobbiamo dire Loïs Settimo re di Francia? Rischia di cadere nel ridicolo.
Il re d’Aragona che hanno dei bellissimi nomi che in catalano suonano benissimo… ci sono dei re catalani del Medioevo che erano anche scrittori, cronisti. Ci sono queste cronache che sono intitolate appunto col nome del re: la cronaca del re Pietro, “Cronica del Rey En Pere”, del re Don Pietro; “La cronaca che el re En Jaume”, “Comentari Del Rey En Jaume”, il commentario del re Don Giacomo. Giacomo, vogliamo chiamarlo in catalano? “Jaume”, già, ma lui chiamava se stesso “Jacme” perché nel catalano di quell’epoca era “Jacme”.
Come vedete ci mettiamo in un ginepraio e secondo me, Elisabetta, io direi che tutto sommato possiamo tenerci la traduzione perché è la cosa più pratica.
Che poi anche, non so, Ugo Grozio o Cartesio restano tali. Non è che… infatti Guglielmo… addirittura il cognome veniva italianizzato, vero?
Vero, però al tempo stesso se invece Cartesio lo vogliamo chiamare come si chiamava lui, non diciamo più Renato Descartes, come diciamo? “René Descartes”, però Cartesio sì, era un uso specialmente nel Rinascimento e se vogliamo era anche una cosa bella perché implicava, come dire, una comunanza. Tradurre vuol dire anche che “ti sento dei miei” e se dovessi dire il tuo nome nella tua lingua ostica e barbara farei fatica, ma “tu sei dei miei” e quindi italianizzo il tuo nome.
Conclusione
Tempo super scaduto!
Ahimè, va bene! Io devo dire che parlare di lingue mi diverte sempre moltissimo. Io avrei fatto il linguista se non avessi fatto lo storico e al liceo ci avevo anche pensato per un attimo. Quindi grazie dell’argomento, Davide, è stato molto divertente almeno per me. Arrivederci a tutti! A risentirci a tutti per la prossima puntata, a presto!
In conclusione a questo episodio, una rapida segnalazione del libro del linguista tedesco Harald Haarmann: “Storia universale delle lingue – Dalle origini all’era digitale”, ripubblicato in Italia da Bollati Boringhieri nel 2021. Buona lettura!
QUIZ
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